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Se il marker è positivo non sempre è cancro


La presenza di un marker non deve essere considerata come verità assoluta della presenza di un tumore, perché può indicare invece patologie benigne. A sottolinearlo è Roberta Pacifici, dirigente di ricerca dell'Istituto Superiore di Sanità (ISS) e membro del consiglio direttivo della Società italiana di biochimica clinica e biologia molecolare clinica.



I biomarcatori si conoscono da circa 30 anni e inizialmente sono stati accolti come indicatori essenziali nella diagnosi di tumore. Con il tempo invece si è visto che sono presenti anche per forme meno critiche di malattia come ad esempio avviene per l'Antigene prostatico specifico (PSA), che si riscontra anche nel caso di ipertrofia benigna. "A volte i marcatori aumentano anche per brevi periodi dopo manovre invasive come in caso di diagnosi o di intervento chirurgico", spiega Pacifici, "è quindi importante valutare caso per caso e non creare falsi allarmi nei pazienti".



Esistono diversi tipi di marcatori in oncologia: di presenza di alterazione cellulare; di funzione come fattori predittivi di malattia; di rischio, che sono utilizzati per gli screening nella popolazione generale come l'Igf1 per i tumori legati al pancreas o come l'ACO per il tumore del colon retto. "Queste analisi sono delicate e soggette ad errori in fase pre analitica e analitica. È per questo che la Società italiana di biochimica clinica e biologia molecolare sta spingendo per un aggiornamento costante degli operatori", conclude Pacifici, "è importante che i marker siano valutati solo in laboratori che seguono le linee guida, così è garantita la professionalità dei medici e la qualità dell'analisi".

05/10/2005

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